CARCINOMA ANAPLASTICO DELLA TIROIDE
Il carcinoma anaplastico della tiroide (CAT) è un tumore molto raro ma è gravato da una elevata mortalità. La maggior parte dei pazienti infatti non sopravvive oltre un anno dalla diagnosi. L’incidenza è maggiore nell’età avanzata con picco nella sesta-settima decade ed è stata stimata essere intorno a 1-2 casi per milione ogni anno. Rappresenta circa il 2-5% di tutti i carcinomi tiroidei ed è prevalente nelle aree a carenza iodica; spesso infatti molti pazienti pazienti presentano una lunga storia clinica di gozzo ed è stato ipotizzato che la prolungata stimolazione del TSH possa essere responsabile della trasformazione anaplastica di una precedente neoplasia tiroidea. Quest’ultima ipotesi viene in parte avvalorata anche dal riscontro nel carcinoma anaplastico di alcune mutazioni come quelle degli oncogeni RAS e BRAF, descritte anche nei carcinomi differenziati della tiroide, sebbene alcune di queste, come i riarrangiamenti RET/PTC, non sono state mai descritte. Le mutazioni più frequenti nel CAT sono comunque quelle dell’oncogene p53, non descritte nelle forme differenziate, e per questo sospettate di avere un ruolo cruciale nella progressione da carcinoma differenziato a indifferenziato.
PRESENTAZIONE CLINICA E STADIAZIONE DI MALATTIA
La presentazione tipica del carcinoma anaplastico della tiroide è quella di un rapidissimo incremento di una tumefazione del collo capace di creare sintomi riferibili a compressione delle strutture locali come disfagia, dispnea, tosse e disfonia. All’esame obiettivo del collo si apprezza una massa dura e adesa ai piani sotto e soprastanti associata spesso alla presenza di linfonodi del collo aumentati di volume. Al momento della diagnosi molti pazienti hanno già sviluppato metastasi a distanza e la sede comunemente più colpita è il polmone, mentre meno frequentemente sono coinvolti anche fegato, cute, scheletro ed encefalo.
L’ecografia del collo mostra solitamente una massa molto disomogenea ed ipoecogena (prenota ecografia tiroidea) che risulta ipocaptante all’esame scintigrafico. La diagnosi può essere confermata da un agoaspirato tiroideo, o in casi dubbi, da un esame istologico su biopsia per cutanea. Il tumore è tipicamente costituito da composta da cellule atipiche con numerose figure mitotiche che determinano un pattern di crescita polimorfo. La TAC e la risonanza magnetica nucleare sono utili nel definire l’estensione locale della malattia e nell’identificare metastasi a distanza. La tracheoscopia e l’esofagoscopia sono generalmente eseguite in seguito a comparsa o a peggioramento di sintomi locali.
TERAPIA
La terapia di prima scelta è l’intervento chirurgico di tiroidectomia da eseguire in tutti i casi dove si ha la possibilità di una rimozione radicale della neoplasia (prenota una vista chirurgica). Anche nelle forme tumorali di carcinoma anaplastico non completamente resecabili, al fine di ridurre o quantomeno rallentare le complicanze legate alla crescita locale della neoplasia, può essere consigliato un “debulking“ chirurgico, che presenta un maggior impatto sulla sopravvivenza globale rispetto alla sola biopsia chirurgica. In tutti i casi, anche in quelli dove la chirurgia è stata radicale (prenota una vista chirurgica), è importante associare la radioterapia esterna, preferibilmente attraverso l’impiego di schemi iperfrazionati o accelerati.
A differenza dei tumori tiroidei differenziati, le cellule tumorali del CAT non producono tireoglobulina e non sono iodocaptanti, quindi non suscettibili di trattamento radiometabolico con I-131.
Fino a poco tempo fa, la sopravvivenza media era di circa 2-6 mesi e non veniva significativamente influenzata dalla terapia chirurgica, radioterapica o con chemioterapia convenzionale. Era stato suggerito che la combinazione di queste terapie secondo vari schemi multimodali potesse limitare la progressione di malattia sia a livello locale che nelle altre sedi, ma i risultati sono stati deludenti.
Speranze più concrete di aumentare i tempi di sopravvivenza legate alla recente introduzione di nuovi farmaci, i cosiddetti inibitori delle tirosin-chinasi.
Questi farmaci hanno come bersaglio specifiche proteine codificate da proto-oncogeni costitutivamente attivati o da geni che intervengono come fattori di crescita cellulare e/o vascolare, e sono quindi in grado di bloccare o rallentare lo stimolo cronico della crescita e diffusione tumorale bloccando sia le tappe della carcinogenesi della cellula tumorale sia bloccando la crescita vascolare.
Prof. Furio Pacini
Dr. Marco Capezzone
APR
2012